venerdì 30 aprile 2010

L’Editoria cartacea chiedeva tasse per Internet

Ormai Internet pare essere diventata l’ancora di salvezza e il capro espiatorio di tutti i problemi delle attività economiche di vecchio stampo. Ogni volta che le cose non vanno infatti, almeno qui da noi in Italia, non si trova niente di meglio che indicare Internet come la soluzione di tutti i problemi o, alternativamente, come la fonte di tutti i mali e, in quest’ultimo caso, si pretende di scaricarvi sopra il costo di modelli di business non più funzionali, senza cambiarli. È accaduto poco tempo fa con la legge che ha esteso la tassazione finalizzata a foraggiare la SIAE a tutti i prodotti dotati di memoria di massa, cosa che ha fatto lievitare i prezzi finali al consumatore anche di alcune decine di euro, e ora è la volta della FIEG, la società degli editori cartacei italiani, che pretendeva l’imposizione di un sovrapprezzo sulle connessioni a banda larga da versare all’editoria cartacea. Fortunatamente hanno incassato un no bipartisan.
Qualcosa va male? Scarichiamone costi e colpe su Internet e i suoi netizen, quei fortunati individui che pretendono di pagare poco e niente per accedere liberamente e democraticamente al mare magnum della conoscenza. Non è mica giusto che loro navighino liberamente tra decine di milioni di pagine di contenuti e i giornali non si vendano più. Cambiamo business model con uno più nuovo e funzionale? Ma neanche per idea, impegnarsi a pensare nuove forme di mercato per libri e giornali, no, troppa fatica: chiediamo semplicemente al governo di far pagare agli utenti di Internet i costi dell’inefficienza di un modello superato.
Questo, in sintesi, era il pensiero dell’associazione degli editori, che aveva rivolto tale richiesta al governo, fortunatamente incassando soltanto un doppio no, da parte sia dal segretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti che da Paolo Gentiloni, esponente del PD ed ex ministro delle Comunicazioni. Il Governo ha inoltre invitato gli stati generali dell’editoria a riunirsi al più presto per trovare invece modi nuovi per tagliare i costi eccessivi del proprio settore senza per questo penalizzarlo eccessivamente.
Insomma, mentre nel resto d’Europa si investono miliardi di euro per la realizzazione di infrastrutture e servizi basati sulla banda larga la Rete italiana è già di per sé palesemente arretrata e un provvedimento simile, qualora fosse stato preso in considerazione dal legislatore, non avrebbe fatto altro che affossare ulteriormente la rete italiana, già alle prese con il problema dei fondi ad essa dedicati ma congelati dal governo. Auspichiamo quindi che i vertici della FIEG, dopo aver incassato il doppio no, aprano gli occhi e pensino a sviluppare nuovi e più funzionali business models per rilanciare l’editoria cartacea; magari proprio in sinergia con le potenzialità offerte da Internet e non alle sue spalle.

FAPAV: vittoria degli ISP, non c’è obbligo di denuncia

Tra i tanti casi che vedono le major dell’intrattenimento contrapposte spesso alle associazioni di consumatori e a volte anche ai provider nella guerra tra protezione dei privilegi economici da un alto e diritti dei consumatori e rispetto delle più elementari leggi civili dall’altro, il caso FAPAV ha tenuto banco nella parte iniziale di quest’anno, per quanto riguarda il nostro Paese. Ora arriva la prima svolta: il Tribunale di Roma sentenzia che non c’è obbligo di denuncia da parte dei provider.
Si chiude con una sconfitta per le associazioni che spalleggiano l’industria multimediale questo primo round, conosciuto anche come caso FAPAV. Questa associazione (Federazione Anti Pirateria Audio Visiva) aveva infatti chiesto al tribunale di obbligare Telecom Italia a denunciare i propri utenti che facevano un uso illegale della propria connessione. Per muovere questa accusa però la FAPAV aveva indagato privatamente, senza alcuna autorizzazione, spulciandosi ben bene centinaia di migliaia di utenti Telecom avvalendosi della collaborazione di un’azienda privata, la CoPeerRight Agency, che probabilmente ha usato strumenti illegali, come programmi di sniffing etc. Su queste basi molto legali quindi l’associazione ha avuto l’arroganza di chiedere al tribunale civile di imporre a Telecom di divulgare i nomi degli abbonati corrispondenti agli indirizzi IP identificati, il tutto ovviamente in nome del rispetto delle leggi, quelle stesse che erano appena state calpestate.
In ogni caso il Tribunale di Roma ha invece sentenziato stabilendo che un’associazione non può chiedere a Telecom di rivelare i nomi degli utenti e di denunciarli all’attività giudiziaria, ma che dev’essere un giudice a fare questo; inoltre Telecom non può e non deve bloccare l’accesso ai presunti siti. Il motivo di fondo è che non è responsabile delle attività pirata degli utenti. In questo modo quindi il giudice ha recuperato tra l’altro la nota norma europea del codice delle comunicazioni elettroniche, secondo cui gli intermediari non sono responsabili di quello che fanno i propri utenti. Telecom addirittura, secondo la sentenza, non è obbligata nemmeno a informare gli utenti, cioè ad avvisarli che stanno commettendo illeciti e a persuaderli di smettere. Sono infatti tutti provvedimenti “da ritenere di competenza dell’autorità giudiziaria investita dell’accertamento delle violazioni”.
Insomma, l’industria del copyright deve seguire la via classica, niente scorciatoie: possono soltanto denunciare il fatto alle autorità giudiziarie, a cui spetta poi il compito di ottenere dal provider i nomi degli utenti o di oscurare i siti sospettati di favorire la pirateria. Vittoria su tutta la linea dunque per Telecom Italia.Per il momento, almeno.

Blockbuster si chiama bancarotta

Il logo blu e giallo della famosa catena di film in DVD da affittare sta tremando alla stessa maniera in cui fece tremare a suo tempo le major con la minaccia di svuotare i cinema e riempire i salotti. Ora sottominaccia di fallimento è proprio Blockbuster, messo in crisi da Internet e non certo dal file sharing illegale quanto dalla sempre maggior diffusione dei servizi on demand: e così la storia si ripete, il cinema messo in crisi dai DVD e questi ultimi messi in crisi dal Web; secondo gli economisti è la legge dell’evoluzione del mercato, secondo i dirigenti di
Il logo blu e giallo della famosa catena di film in DVD da affittare sta tremando alla stessa maniera in cui fece tremare a suo tempo le major con la minaccia di svuotare i cinema e riempire i salotti. Ora sottominaccia di fallimento è proprio Blockbuster, messo in crisi da Internet e non certo dal file sharing illegale quanto dalla sempre maggior diffusione dei servizi on demand: e così la storia si ripete, il cinema messo in crisi dai DVD e questi ultimi messi in crisi dal Web; secondo gli economisti è la legge dell’evoluzione del mercato, secondo i dirigenti di Blockbuster si chiama bancarotta.
La catena da Dallas, Texas, nata 25 anni fa e con circa 6.500 negozi in tutto il mondo di cui quattromila sedi soltanto negli States e qualche centinaio in Italia, naviga in acque così cattive che avrebbe deciso di aggrapparsi al salvagente del Chapter 11, la legge Usa che disciplina la bancarotta. A provocare la crisi è stata Internet, ma non il tanto odiato e perseguitato(ma in realtà molto poco incisivo) file sharing illegale; la colpa è stata prima della TV via cavo, come Time Warner ad esempio, e poi di siti come NetFix, la catena che permette agli abbonati, con una cifra di partenza sotto i 10 dollari, di richiedere via Web il film direttamente a casa: un successo che porta oggi il gruppo a crescere del 20 %. E sempre la rete ha sancito anche il trionfo del video on demand, anche solo in affitto, dai negozi virtuali come iTunes e Amazon.
Insomma la crisi è così nera da aver già fatto prevedere tagli da 200 milioni e la chiusura di quasi 800 negozi. Mentre l’annuncio della possibile bancarotta fa crollare del 30 % anche i titoli della catena, la dirigenza è comunque al lavoro per tentare di salvare il salvabile, cercando di recuperare il ritardo con i concorrenti, ad esempio permettendo finalmente il servizio di ordini via Web e soprattutto sviluppando una catena di chioschi (ne ha installati già più di 2000) sull’esempio di RedBox, l’altro grande rivale, che ha migliaia di macchinette strategicamente piazzate nei centri commerciali, da cui prelevare facilmente DVD al prezzo di un dollaro al giorno, cosa possibile in quanto appunto mancano locali, spese e stipendi dei dipendenti.
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La catena da Dallas, Texas, nata 25 anni fa e con circa 6.500 negozi in tutto il mondo di cui quattromila sedi soltanto negli States e qualche centinaio in Italia, naviga in acque così cattive che avrebbe deciso di aggrapparsi al salvagente del Chapter 11, la legge Usa che disciplina la bancarotta. A provocare la crisi è stata Internet, ma non il tanto odiato e perseguitato(ma in realtà molto poco incisivo) file sharing illegale; la colpa è stata prima della TV via cavo, come Time Warner ad esempio, e poi di siti come NetFix, la catena che permette agli abbonati, con una cifra di partenza sotto i 10 dollari, di richiedere via Web il film direttamente a casa: un successo che porta oggi il gruppo a crescere del 20 %. E sempre la rete ha sancito anche il trionfo del video on demand, anche solo in affitto, dai negozi virtuali come iTunes e Amazon.
Insomma la crisi è così nera da aver già fatto prevedere tagli da 200 milioni e la chiusura di quasi 800 negozi. Mentre l’annuncio della possibile bancarotta fa crollare del 30 % anche i titoli della catena, la dirigenza è comunque al lavoro per tentare di salvare il salvabile, cercando di recuperare il ritardo con i concorrenti, ad esempio permettendo finalmente il servizio di ordini via Web e soprattutto sviluppando una catena di chioschi (ne ha installati già più di 2000) sull’esempio di RedBox, l’altro grande rivale, che ha migliaia di macchinette strategicamente piazzate nei centri commerciali, da cui prelevare facilmente DVD al prezzo di un dollaro al giorno, cosa possibile in quanto appunto mancano locali, spese e stipendi dei dipendenti.

mercoledì 27 gennaio 2010

Fondi di energia, quelli del caffè


Vi state facendo un buon caffè? Bene! State buttando via i fondi del caffè? Male! Sono preziosissimi. Da poco si è scoperto che possono essere riciclati e possono rivivere sotto forma di cosmetici o di biocombustibile.
Un gruppo di ricercatori romani ha scoperto che dai fondi del caffè è possibile estrarre dei polifenoli, cioè delle sostanze naturali con spiccate proprietà antiossidanti, che potrebbero essere utilizzati nell'industria cosmetica e non solo.

Roberto Lavecchia e Antonio Zuorro, del Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Roma “La Sapienza”, hanno recentemente sviluppato un procedimento innovativo che utilizza la polvere di caffè esausto per produrre composti bioattivi ad alto valore aggiunto e un residuo suscettibile di ulteriore valorizzazione.
Il processo sviluppato ne prevede invece l’uso come materia prima, a costo praticamente nullo, per ricavarne una miscela di polifenoli e un residuo inerte utilizzabile in campo energetico o per la depurazione delle acque.
Ci facciamo spiegare tutto da Antonio Zuorro, l'ingegnere che ha condotto lo studio. Ascolta l'intervista!
Per le loro spiccate proprietà antiossidanti i polifenoli, o composti fenolici, sono già da tempo utilizzati nel settore farmaceutico, cosmetico e dietetico-alimentare. La possibilità di ottenerli da una materia prima di scarto, quali sono i fondi di caffè, potrebbe aprire nuovi interessanti scenari di sviluppo e di mercato.
La produzione mondiale di caffè supera i 6 milioni di tonnellate annue e tale cifra rappresenta, in prima approssimazione, i quantitativi di rifiuto solido complessivamente prodotti. Le fonti di generazione di questa tipologia di rifiuto sono molteplici: le industrie produttrici di caffè solubile, il comparto della ristorazione (bar, ristoranti, mense), le utenze domestiche e i luoghi di lavoro dove si utilizzano macchine automatiche per il caffè.
L’impiego di queste macchine comporta anche la dispersione nell’ambiente delle capsule monodose (in polipropilene e/o alluminio) in cui è contenuto il caffè.
Un primo dato interessante che è emerso nel corso delle ricerche è l’elevato contenuto di composti fenolici, che ne giustifica ampiamente il recupero dallo scarto.
Successivamente si è passati all’individuazione delle condizioni ottimali del processo di estrazione di questi composti e alla scelta di un solvente estrattivo che fosse al tempo stesso efficiente e non tossico o nocivo per l’ambiente. Impiegando un solvente formato da acqua ed etanolo (il comune alcol presente nei vini e nei distillati di uva) è stato possibile recuperare tra il 90 e il 95% dei polifenoli totali presenti nel rifiuto. Il solvente, inoltre, può essere completamente recuperato al termine dell’estrazione e riutilizzato in ciclo chiuso, e in tal modo il processo non genera nessun tipo di rifiuto o di effluente da smaltire. E’ stato anche appurato che gli estratti ottenibili con tale procedimento sono dotati di un’elevata capacità antiossidante, superiore a quella di numerosi antiossidanti sintetici.
Il residuo solido inerte che rimane dopo l’estrazione dei composti fenolici possiede un altissimo potere calorifico, superiore a quello di legni pregiati. Ciò lascia intravedere la possibilità di realizzare un processo integrato in cui l’estrazione dei polifenoli dalla polvere
di caffè è seguita dalla produzione di un biocombustibile, in forma di pellets o di bricchette, utilizzabile per riscaldamento.
Lo stesso gruppo di ricerca sta valutando soluzioni alternative di impiego e valorizzazione del residuo inerte. Un’interessante possibilità è costituita dalla realizzazione di dispositivi per la rimozione di metalli pesanti da acque contaminate. Il solido che si ottiene al termine del processo di estrazione dei polifenoli si è rivelato, infatti, un ottimo adsorbente nei confronti di piombo, cadmio, ferro e altre specie metalliche.
Il problema del piombo nell’acqua potabile è legato alla presenza ancora diffusa di tubazioni e strutture in piombo. Col passare del tempo questo metallo si solubilizza nell’acqua e tramite l’acqua viene introdotto nell’organismo, dove si accumula dando
luogo a disturbi del sistema nervoso e immunitario oltre che a un alterato metabolismo del calcio. I bambini e i feti risultano particolarmente a rischio, per la maggiore facilità con cui il loro organismo assorbe il piombo.

E' importante sviluppare la pratica di riciclo e non di smaltimento le cose cambiano solo se noi vogliamo.